Thursday, June 11, 2020

Nel quale si accenna il quarto d'ora del Cavalier Mostardo; e Spadarella esce dal suo quieto giardino nel mondo.

Era arrivato, era ritornato. Avean fatto bufera per domare l'incendio al Conventino e, dispento l'ultimo tizzone, avevan veduto che il danno si riassumeva in ben poca cosa. Un po' di fuoco in un'ala della vastissima villa: nell'ala adibita alla servitù. La gente fu molto delusa. I pompieri brontolavano come coloro che ben conoscevan la sordida avarizia dei marchesi Alerami. Intanto, dopo aver percorsi quasi venti chilometri, nessuno aveva pensato, o pensava, a dissetarli con un po' di vino generoso. Il Cavalier Mostardo pagò di tasca sua la bevuta. Questo anche non sarebbe stato un gran male, per lui; il suo malumore incominciò da quando si accorse che Mignon non era al Conventino. Allora la gran corsa, la gran furia che scopo avevano? Doveva egli difendere i beni e la vita dei signori Alerami solamente per i begli occhi loro? Convinto che la sua napoleonica dolcezza non era più nel nido della sua notte trionfale, fu preso da sì grande dispetto che, non che spegnere, avrebbe egli stesso dato fuoco alla aristocraticissima villa. Ma c'era il popolo e doveva contenersi. Poi aveva la testimonianza di Asdrubale Tempestoni, il quale sarebbe arrivato al polo, con le sue pompe, solo per il piacere di chiacchierare. Anzi, Mostardo pensò di ingraziarsi l'animo di Asdrubale e, siccome lo sapeva impresario teatrale e appassionatissimo di musica, in una tregua gli disse:
— Sapete, Asdrubale, debbo farvi sentire mia nipote.
— Chi?... Spadarella?...
— Sì.
— E che cosa fa? Canta?
— Ha una voce, caro mio, che desterebbe un morto!
— Fate per ridere?
— La sentirete.
— E dove debutterà?
— Non so ancora. Io non vorrei che andasse sul teatro.
— Perchè?... Può avere un capitale e volete lo butti via? Non è mica signora!
— Be', ci penseremo.
— Mostardo, vogliamo farla debuttare al Comunale? Ci penso me!
Questo, del «me» dialettale, era un vezzo del nostro Asdrubale; ma altri ne aveva che scopriremo in seguito.
Il Cavaliere non disse, sulle prime, nè si nè no, ma poi tanto viva e irruente fu l'insistenza di Asdrubale Tempestoni che finì per compromettersi.
— Va bene, quando debutterà, vi prometto di dare l'impresa a voi.
— Qua la mano!
— Ecco.
Patto conchiuso.
— Però — aggiunse Mostardo — debutterà quando voglio io.
— Sì, ma non più tardi di quest'inverno.
— Vedremo.
— No. Voglio la vostra parola.
— Bisognerà parlare a Spadarella, prima.
— Domani vengo da lei.
— Domani non posso.
— Be', alla fine della settimana.
— D'accordo.
Tempestoni non aggiunse parola e se ne andò. Il Cavalier Mostardo diventava di umore sempre più nero.
Attese, in disparte, che tutti si fossero allontanati; solo, fece cenno a Bucalosso di aspettarlo.
Si era seduto su di una panchina, dietro una macchia di alloro, lungo un viale solitario e lasciava che i suoi pensieri corressero alla disperata nel campo della sua preoccupazione.
La notte moriva.
Sui prossimi colli il cielo imbiancava, nell'alba. Una campana, da una pieve, suonò l'Ave del giorno. Incominciavano a frusciar le foglie, appena appena. Si levava il respiro del chiarore e non faceva più tanto caldo. Un'ora soave, da starsene con l'amore e con la bocca dell'amore, così, perdutamente, per non vivere d'altro che di carezze. E poi dormire. Dormire fino alla fine di ogni suono e di ogni tempestìo, per sempre! Perdere tutte le pene e tutte le angherie del mondo, in un grande sonno.
Forse... se non ci fosse stata Spadarella sua...
Ma come allontanarsi e lasciar sola quella bambina?
Era stanco e la stanchezza gli si convertiva in nausea del mondo.
Si disse:
— Bisogna davvero ch'io sia di ferro, per resistere a tanta fatica!
Ma la fatica era niente. Peggio della fatica erano gli uomini. Ecco il castigo! Egli credeva che il Signore avesse segnata la vera tremenda condanna degli uomini quando incominciò a moltiplicarli sulla terra.
Crescete e moltiplicate. Questa era la maledizione del Signore!
La campana dell'alba suonava sempre. Egli vedeva, nel chiarore nuovo, una piccola casa bianca, levata sulla cima di un colle. Aveva, a lato, tre grandi pioppi che salutavano il sole. Un nido di passeri, nel turchino.
Gli occhi suoi non sapevano distaccarsi da quella visione.
Possibile che la famiglia, la quale dormiva così, sotto quella pace di cielo e di stelle, non dovesse avere un gran riposo in cuore? La invidiò. Egli aveva fatto della sua vita una bandiera e non ne valeva la pena. Meglio sarebbe stato andarsene per il mondo, senza mèta e non conoscere nessuno, oppure aver elevata una casa come quella... un altare bianco sui colli delle rugiade e del sole; un poco di spazio per un'ombra e un silenzio e per la bocca dell'amore...
Il capo gli si curvò.
Aveva un gran sonno. Bisognava infatti che avesse un gran sonno e fosse molto stanco per ragionar così, il Cavalier Mostardo.
Poi non vide più la casa; non vide più gli occhi dell'alba; a poco a poco, a poco a poco si arrovesciò sulla panchina e si chiamò Nessuno, nella tenebra del suo riposo.
Per quanto la faccenda della battitura procedesse con esito favorevole ai gialli, e per quanto l'opera del Cavalier Mostardo cominciasse ad esser valutata ogni giorno più, il nostro eroe non era contento, anzi attraversava un periodo di inconsueta tristezza.
Non gli attacchi del clero e dei socialisti gli annebbiavano la vita, e neppure il gran sussurrìo che aveva seguito l'ultima sua avventura e la scomparsa di Carlotta; ma il silenzio di lei, della sua Mignon, dell'eroina del gaudioso sogno napoleonico de' suoi cinquantacinque anni.
Ella era discesa nel mistero! Dalla notte dell'incendio e dalla sua corsa folle, attaccato ad una pompa, verso il Conventino, non ne aveva saputo più niente. La lettera di lui era rimasta senza risposta. Le sue passeggiate notturne, sotto il palazzo dei marchesi Alerami, non avevano avuto risultato diverso da quello di renderlo ancora più triste. Era la prima volta, nella sua vita battagliera, ch'egli soffriva così, per amore. Se gli avessero detto, un solo mese prima, che si sarebbe disperato per una donna bella e infedele, avrebbe messo alla porta, con palese sdegno, l'insolente.
Ma ora, il povero Cavaliere, si curvava sotto il peso del dolore.
Perchè era dolore, e di quello buono!
Non dormiva quasi più; mangiava quanto un canarino.
Dov'era, dov'era il nobile e robusto Cavalier Mostardo dallo stomaco pugnace?... Dov'era l'eroe delle cene, sempre pronto a sollazzarsi in strippate, scorpacciate e pappatorie? Dove smarrito, l'ubertosissimo colosso che si sarebbe coricato in una leccarda, ai suoi bei tempi, per esser pronto a satollarsi ancora, negli intervalli del sonno?...
Ahi, ch'egli aveva rinnegato, ormai, le buone pietanze grasse e succolenti e, preso dai melanconici umori, si estraniava per le contrade dei sospiri!...
Una grave voce interiore gli aveva detto:
— Hai tu voluto provare la cosa aristocratica?... E ben ti sta!...
Rigaglia lo guardava, scuotendo il testone. Una specie di tenerezza, ch'egli non sapeva neppure che gli covasse in cuore, lo faceva un poco più attento alla vita del padron suo. Si adoperava, intorno ai fornelli, per cucinare le cose che sapeva essere più grate al palato del Cavalier Mostardo; ma i larghi piatti e le ben capaci zuppiere ritornavano in cucina quasi pieni, e ciò rendeva più pensoso Rigaglia, il quale, d'altra parte, si guardava dall'interloquire.
Solo una volta disse:
— E se chiamassimo il dottore?
— Per farne che?... — domandò Mostardo senza levar gli occhi.
— Per farci visitare. Incominciamo ad essere vecchi...
Mostardo alzò la faccia, guardò il fido seguace e rispose:
— Sarai vecchio te!.. Io sono giovanissimo!..
— Lè e vera!... (È vero!...) — mormorò Rigaglia e se ne andò.
Un'altra volta disse ancora:
— A' j'avên tropi robi par la testa! (Abbiamo troppe cose per la testa!).
— Chi? — domandò Mostardo.
— Noi! — rispose Rigaglia.
— Io non ho nessun pensiero. Ne avrai tu!
— Oi... e sarà ichsè!... (Sarà così!...).
E se ne era andato col dubbio tremendo di rimaner vedovo perchè «non la vedeva chiara».
— Me an la vegh cèra! (Io non la vedo chiara!) — aveva già detto a Coriolano, il giorno innanzi.
— Mo no!... (Ma no!...) Ssss... sss... sono sssssssph... sono sssssssph... sono spasimi... ddda... dddamo-mo... sono spasimi d'amore!...
— Direte per ridere?... — aveva fatto Rigaglia, spalancando due occhi pieni di incitrullito stupore.
— Se tttttt... se te lo dico io!...
Ma Rigaglia non aveva potuto credere una cosa simile, perchè l'amore e la voglia dell'amore avevan preso, per lui, la via dell'esilio, in Albania, involontariamente sacrificati alla impubere libertà di quei pastori e formaggiai. Ei si era incocciutito nel suo primo pensiero che era quello di una malattia. Il padron suo doveva essere malato di qualche brutto male perchè non l'aveva veduto mai così. E, se fosse morto, gli avrebbe fatto dispetto. Rigaglia avrebbe sofferto di una vera e propria vedovanza. Con chi vivere?... Dove portare le sue scarabattole? Come abbandonare quella casa? A chi ubbidire? Che cosa mettere al posto del Cavalier Mostardo?
Ormai erano assieme da troppo tempo, l'uno e l'altro, il piccolo e il grande; avevano attraversate troppe strade, si erano trovati in troppi pericoli... avevano litigato troppo!... Anche il litigio finisce per diventare una cara necessità, tanto la natura dell'uomo è bizzarra. E Rigaglia viveva in pensiero, cercando la sua minore sgarberia per accostare il Cavaliere che non stava bene.
Ma il Cavaliere, all'opposto, si sentiva benissimo, e i sottili pasti e la leggera insonnia, anzichè minargli la salute, lo ringagliardivano perchè veniva così rinnovandosi negli umori suoi ed espellendo quei pochi veleni che aveva accumulati nel sangue. Solo, non sapeva più ridere a bocca piena, con quella tale sgangherata grazia che era un suo vezzo popolaresco di cui non si era saputo emendare.
Ridere con un certo contegno, sorridere, erano cose troppo remote nella civiltà delle metropoli perchè potessero entrare nell'orbita sua di piena espansione e vitalissima. Così dalla sua risata, omericamente gagliarda, era passato al silenzio per dispiaceri di cuore.
Che poteva avere la sua Mignon? Possibile si fosse stancata di lui, così di punto in bianco, dopo essersi compromessa?
Perchè si era compromessa, e con indicibile trasporto, non gli aveva fatto carestia di niente, nella notte del suo napoleonico abbandono. Era stata veramente imperiale!
Forse lo scandalo l'aveva urtata.
Il furto della Carlotta; le chiacchiere per tutta la città; l'incendio al Conventino, (incendio doloso dovuto certamente a una vendetta dei rossi); la scomparsa della marchesa; la pubblica lotta ch'egli aveva sostenuto al caffè, dopo aver provocato Bigatti e Marmissi; la schioppettata di Bucalosso; l'escomio dato, dietro consiglio suo, alle famiglie coloniche dei Casaròtt e dei Fèna e le conseguenti minaccie di morte al signor marchese il quale, per la gran paura, aveva preso il treno e non si era fermato che a Taranto col pretesto di assistere a certi scavi; le chiacchiere messe in giro dal cameriere di Casa Alerami; le calunnie dei nemici suoi e infine la campagna della giornalaglia!... Ce n'era d'avanzo! In quanto a questo, s'egli prendeva a proteggere una famiglia, c'era da stare allegri!
Mostardo doveva regolare molti conti, e specialmente col famigerato Don Palotta che aveva pubblicato sulla Famiglia Cattolica, certi trafiletti da non potersi in alcun modo tollerare; ma rimandava la faccenda, sempre per amore di Mignon; per non allargare lo scandalo, per non dar nuova esca alle chiacchiere de' suoi nemici.
E sempre per l'onore e la riputazione della imperatrice sua, aveva escogitato e messo in opera un altro piano. Per salvare Mignon, bisognava deviare all'improvviso, con un bel colpo, l'attenzione del pubblico, far cadere i maldicenti e i nemici nella pania, prenderli allo zimbello dell'inganno. Fu allora che il Cavaliere pensò nobilmente di sacrificare se stesso all'amore di un'altra. Aveva tre innamorate in tasca; non gli restava che scegliere.
Scartata di primo acchito la quarantenne Margherita Ruelli gli restavano Maddalena, che era quella dell'«uomo del mio sogno», e Claretta.
Optò per Claretta. Gli piaceva il nome. La lettera di lei diceva:
Amore mio,
tu non mi conosci, ma tu sei l'oggetto etcetera, etcetera...
Benissimo! Si sarebbe sacrificato a Claretta per salvare Mignon. Ma chi era questa Claretta?... Non gli si sarebbe presentata, putacaso, una qualche ragazza smessa?... Un donzellone che avesse dispettosamente trascinato il proprio pulzellaggio fino alla cinquantina, senza sapere poi rassegnarsi a portarselo con Dio?... Perchè, in tal caso, ah, no per Bios! Il pulzellaggio, se è una cosa di paradiso al tempo giusto, diventa, fuor di stagione, un orrendo sproposito. È buono da rispettare come simbolo, ma alla lontana.
Però non era possibile che una donna di cinquant'anni si chiamasse ancora Claretta; sarebbe stato un anacronismo. Claretta non poteva avere più di venti o venticinque anni. Però come accertarsene?
Le scrisse. Si tenne sulle generali; accusò la propria età.
Signorina,
grazie per la sua lettera e per il suo amore, ma, purtroppo, tutto è illusione! Io ho 55 anni, cara mia!... Una piccola nespola! Che cosa ne pensa lei, coi suoi venti o venticinque annolini? Vuole scommettere che non mi vuole più bene adesso? L'ho sempre detto io, cara mia: è tutta illusione!
Se vuole scrivermi ancora farò un salto per la contentezza.
Il suo: C. M.
E spedì; e aspettò. Dopo un giorno arrivò la risposta.
Amore mio,
se tu avessi anche settant'anni, saresti sempre il mio eroe e il mio amore. Io discendo da una vecchia famiglia repubblicana. Pensa a questo e ti spiegherai tutto. Ho ventott'anni, tanti quanti bastano per farti ancora felice. Se vuoi conoscermi vieni questa sera alle sei alle «ferme in posta». Io domanderò una lettera per Claretta Clari. Avrò un grande feltro rosso sui miei capelli neri.
Ti abbraccia la tua
Claretta
Questa signorina Clari, viaggia in direttissimo! — si disse Mostardo. Poi pensò a tutte le famiglie repubblicane della città del Capricorno.
— Clari?... Mah!... Sarà benissimo ma io non la conosco.
Però ventott'anni!... Andò, sebbene a contraggenio; ma bisognava salvare Mignon. Giurò a se stesso di mantenersi puro.
Alle cinque era pronto, col vestito migliore e una cravatta rossa, a farfalla. Attraversò la Piazza, in pompa magna. Ci teneva che tutti lo vedessero, che tutti lo spiassero.
A Coriolano che andò ad incontrarlo, disse:
— Lascia che me ne vada. Ho un appuntamento.
E il Donzello della Democrazia:
— Un apppph... un apppph...
— Sì, un appuntamento!
— Dddddd... ddddd'amore?
— Pare!...
— Tttttth... tttttu?...
— Io, sì! Perchè?...
— Mmmmostardo, vvvuoi un consiglio?
— Grazie, non ne ho bisogno.
— No. Mostardo stttth... stta-ta... sta-sta... Porco cane!... Sta attento alla tua salute!
Quando Coriolano imprecava, era sicuro di infilare una frase senza interrompersi.
Il Cavalier Mostardo sorrise e se ne andò. Avendo incontrato Coriolano, era sicuro che, in dieci minuti, tutta la città avrebbe saputo della sua avventura; e ciò gli piaceva.
Entrò nel Palazzo della Posta. Eccolo nella sala centrale; molta gente agli sportelli. Girò l'occhio intorno; un feltro rosso non c'era. Erano le sei precise; a Mostardo piaceva la puntualità. La signorina Clari incominciava male.
Aprì Il Nuovo Aristogitone e finse di leggere. Ad un tratto vide un bagliore di fiamma attraversare la sala. La faccia della giovane donna era nascosta dalle enormi tese del feltro rosso.
Mostardo, poi che l'ebbe sbirciata, si nascose dietro Il Nuovo Aristogitone e piano piano, lemme lemme, infilò l'uscita e se ne andò. Ma quando fu sotto ai portici, fu preso da un rimorso.
— Andavi a cercare un'avventura, o a salvare la donna del tuo cuore?... Allora perchè tanti scrupoli?... Deve forse piacerti la signorina Claretta?... Se non è che un paracadute, per te, bisogna che tu non la guardi in faccia. Se è brutta, tanto meglio! Non avrai tentazioni!...
Si fermò, vinto dagli scrupoli; piegò il giornale e lo mise in tasca; si volse, e già stava per ritornare sui suoi passi, quando...
Quando, Domineiddio benigno!... Ecco il fungo rosso, ecco l'allampanata donzella lanciarglisi contro con le braccia tese, con le mani tese e gli occhi giulebbati, e la bocca che occupava buona metà della faccia:
— Ah, Mostardo, Mostardo!... Sei venuto!... Sei venuto!...
Parola d'onore, egli credette di avere a che fare con un'alienata. E quando gli fu a un palmo dal naso e potè vederla meglio, sentì un gran freddo.
— Per Bios!...
Macchè Claretta Clari!... Quella era Proletaria Sapelli, maestra elementare a Dovia. Lei, lei, lei!... Non potevano nascere dubbi. Lei, gran Dio, la nipote di Coriolano.
La nipote di Co-rio-lano!!!
L'aveva fatta bella! E ora se lo vedevano?... Se la voce si spargeva per la città?... Se, putacaso, Coriolano spiava nei dintorni?... Pensò risolvere il gravicornuto problema assumendo un'aria paterna, un tono di bonarietà tranquilla e all'irruente e commossa accoglienza della signorina Proletaria rispose, col suo fare più pacato ed estraneo:
— Oh!... È qua lei, signorina Proli!... Come sta?
E le stese con semplicità cordiale la mano che ella non prese.
No, ella non prese la mano del Cavaliere e il volto di lei, inondato, in un primo tempo, di serenamente chiarezza, affondò ad un tratto in una penombra dubbiosa.
— Ma scusa... — fece madonna Proletaria — scusa... non eravamo intesi?...
Al che, di rimando, con ben quadrata semplicità, il Cavalier Mostardo:
— Quando è arrivata?... Si tratterrà molti giorni fra noi?
Allora ella si illividì.
— Che commedie son queste?
— Commedie?... Che cosa intende dire, signorina Proli?
— Ma... io non so se sogno o se sono desta. Scusa, perchè mi hai scritto?
— Chi le ha scritto, signorina Proli?
— Tu!
— Io?... E quando, ragazza mia?... Saranno due mesi che non prendo la penna in mano!
— Ma come? E questa... — e incominciò a frugare nella borsetta.
— Già!... Due mesi o giù di lì. Ho avuto un panereccio a questo dito. Si figuri di vedere un paracarro, cara Proli! Si fa per dire ma le assicuro che sono stato male. Certe fitte!... Mi ha dato perfino la febbre; e un febbrone da cavalli! Ah, i panerecci! Pare così, ma sono faccende serie!... Uno si vede gonfiare, gonfiare che non sa dove vada a finire. Si addormenta con un dito e si desta con un obelisco...
— Scusa... — continuò la signorina Proletaria Sapelli, che non aveva intesa una sola fra le tante parole pronunziate dal Cavaliere nel frattempo, intenta, com'era, alla ricerca; — scusa, e questa chi l'ha scritta?...
E brandiva, alta, la lettera compromettentissima. Egli la riconobbe alla prima occhiata, però mantenne il punto di intransigente innocenza. E domandò con limpida schiettezza:
— Che cos'è?...
— La tua lettera.
— Cara mia, questo non può essere.
— Smettila di fare lo gnorri.
— Lo gnorri?... Di fare lo gnorri?... — Ecco una parola che lo turbava, per Bios! Una parola della Cattedra. — Cara Proli, lo gnorri potremo farlo insieme; ma io solo, no! Mai e poi mai!...
Credeva di essersi salvato con sottile astuzia; ma Proli gli rise sulla faccia.
— Sei comico!
Quanto dispetto in quelle parole e in quella risata!
— Proli, non si dimentichi che siamo in una piazza.
— E che cosa mi importa della piazza e della gente? Io sono figlia delle mie azioni e non debbo renderne conto a nessuno!
— Credo che Coriolano...
— Coriolano non ha niente a che fare con me. Io sono libera, libera, libera!...
— Lo vedo, cara Proli; ma... le convenienze!... Guardi la gente come ci osserva.
— Peggio per la gente e peggio per te!
E si ostinava a trattarlo con quel pronome confidenziale, come se avessero succhiato il latte alla stessa mammella! Dio, che ragazza sguaiata!... E non giovava ch'egli la trattasse con riservato rispetto e con signorile paternità. Ma che cosa voleva dunque?... L'amore?... Sì, stava fresca!... Piuttosto sacrificarsi come Padre Origene, e gettar nel sepolcro le cose sue delicate, anzichè farne parte a quella specie di viragine urlante.
Allora si risolse e le disse:
— O mi stia bene a sentire, egregia signorina: la lettera che lei fa svolazzare così come se fosse una bandiera, non è mia. Io non posso averle scritto e lei lo deve capire...
— E perchè, per esempio?
— Ma perchè, per Bios!, le pare ch'io sia un giovine studente?
— Uno studente, no; ma un vecchio satiro sì!
Vecchio?... Satiro?... O quando avrebbe finito di insolentirlo? Così, ad occhio e croce, satiro gli suonava come il nome di un animale, ma non sapeva bene di quale specie o sottospecie; però non volle lasciar passare l'insulto invendicato e rispose:
— Vecchio o non vecchio, questa è una faccenda che non la riguarda. C'è chi non la pensa come lei... In quanto al resto... sì, in quanto al resto s'io fossi un satiro, a quest'ora avrebbe visto che bello scherzo le avrei fatto!...
Ella scoppiò in una incontenibile risata. E disse:
— Ma, caro Mostardo, non mi faresti poi tanta paura!
Accidenti alla Cattedra!... Finiva per non capirci più niente.
Frattanto, lo aveva preso sotto braccio e voleva far la graziosa! Si era incamminata trascinandolo via e gli parlava languidamente, con un fare da piccola gatta che fa le fusa! Era ancor più brutta!... Un papero sarà sempre un papero, anche se lo mettono in gonnello!... E una brutta faccia, quando voglia angelicarsi, fa male al cuore.
Spadarella, sì, poteva far le smorfiette e le stavano bene come le rose fra i capelli; ma Proletaria?... Ah, quella no!... Quella no!... La signorina Proletaria avrebbe dovuto capire che certe cose non le convenivano affatto.
E si riempiva sempre più di angustiato dispetto. Poi quel braccio scheletrico che premeva contro il suo in una stretta sempre più insistente, gli faceva male. Ma perchè tanta confidenza?... E se qualcuno li vedeva?...
E Proli parlava parlava:
— Perchè sei tanto cattivo con la tua piccola Proli?... Perchè?...
— Piccola? — pensava Mostardo. — Ed ha il voluminoso coraggio di chiamarsi piccola! Ma non si guarda allo specchio? Non si vede? Non ha la coscienza abbastanza evoluta che le possa dire: — No, no, no!...
E Proli continuava:
— ... perchè saremmo tanto felici insieme! Pensaci Mostardo! Tu ed io. La forza e l'intelligenza... Tu ed io! Avremmo tempo di volerci bene e di consacrare le nostre forze unite alla Repubblica. Faremmo una propaganda strepitosa! Se tu fossi con me dovresti prima essere sindaco e poi deputato. E, se i Savoia non se ne andassero, nella tua vecchiaia saresti senatore!...
— Belle chiacchiere!
— Perchè? Non lo credi?... Allora non mi conosci e non sai che cosa possa fare una donna innamorata!
— Oh, sempre delle sciocchezze!...
— Come sei volgare!
— E due!
— Due che cosa?
— È la seconda volta che me lo dice.
— Ma... scusa, non vuoi capirmi! Non senti come ti cerca il mio cuore?
— Io sento un bell'imbroglio!
— Cosa hai detto?
— Ho detto che parlo turco.
— Perchè?
— Ma perchè facciamo a non capirci.
— Sei tu che non vuoi capire!
— Sicuro!
— Che prima hai cercato di compromettermi e poi...
— Non dite questo!... Vi prego di non dire questo!...
Ora cambiava pronome. Ne aveva fin sopra ai capelli. Quel sentirsela stretta al fianco lo inaspriva troppo, e i tentativi di lei, lo rendevan selvaggio. Sfilò il braccio da quello di lei e, scostatosi di un passo, continuò:
— Ch'io abbia cercato di compromettervi son chiacchiere belle e buone!... Io non vi ho mai detto niente che non andasse bene, e vi garantisco che continuerò per questa strada. Potrei anche trovarvi addormentata che non vi torcerei un capello!...
— Come si vede che non sei più il Mostardo di un tempo!
— Lo dite voi!
— E tu me lo provi.
— Bella sboccia!... Perchè sono un uomo di onore.
— Quando ti conviene.
— No! sempre!
— Però Ninon Fauvette...
— Basta!...
— Ninon Fauvette ti conosce come ai tuoi bei tempi dell'alunnato rivoluzionario!
— Queste sono cattiverie che non possono nascere in testa che a una donna! — gridò Mostardo. — E voi non siete neppure una donna!... Voi siete un cacume!... Sì, perchè io non ho trovato mai una linguaccia più perfida, neppure fra i Versipelle dei nostri giornali!...
— Quanto sei carino!
— Io non voglio essere niente per voi e vi prego di finirla. — Era diventato bianco. L'aver tirato in ballo la Mignon del suo cuore, lo aveva fatto uscir dalle staffe. Ora era fermamente deciso di parlar chiaro e di togliersi da torno quel gallinaceo invespito. Ed egli non era, nel fattispecie, disposto a buttar via la gallatura.
Ma ragionando così e incalorendosi seco stesso, gli venne fatto di levar gli occhi e di considerare il luogo nel quale erano giunti camminando passo passo senza badare alla direzione. Guardò e impietrì. Erano sotto alle finestre del palazzo Alerami e vide anche, o gli parve vedere, la sua gioia sporgersi da un davanzale. Tale constatazione lo fulminò.
Si era appena rivolto e, indurite le linee della faccia aveva incominciato a dire, con risolutezza:
— Ed ora vi prego di lasciarmi andare e sia finita una buona volta per sempre!
Appena questo aveva detto quando sentì una mano appoggiarsi familiarmente sulla sua spalla e vide comparire la larga e rotonda faccia del Donzello della Democrazia.
E Coriolano sorrideva, come colui che la sa lunga e come colui il quale, credendo essere possessore di qualche delicato segreto, di qualche amoroso armeggìo sol per questo si ritiene in dovere di assumere un'aria paterna e protettrice.
Sorrise adunque con paterna furbizia, il nostro Coriolano e disse:
— So... so.. sono qua...
— Bravo!... Capiti a proposito!... — gridò Mostardo.
— Conoscerai questa canaglia!... — sibilò Proli che era verde.
Ma Coriolano non si scompose; continuò a sorridere e disse:
— Llll... llllllll... porca miseria!... L'amore comincia sempre così!
— Ma va all'inferno! — gridò Mostardo.
— Aaaa... aaaaaa... amico mio, vuoi un consiglio?... Chhhh... Chhhhhhh... chiudi un occhio!... Prrr... Prrrrrr... Prrrrrrrrr... porco cane!... Proli è un tesoro! siete nati per stare insieme!... L'ho detto sempre io!...
Allora Mostardo più non si tenne.
— Fra te e tua nipote mi avete annoiato anche troppo! Adesso basta perchè non ne posso più... Non ne posso più!... O vi togliete dai piedi, o vi insegno io che cosa vuol dire fidarsi troppo della mia pazienza! — Gridò queste ultime cose perchè potessero essere udite anche dalle finestre del palazzo Alerami, poi, volte le spalle, si allontanò a gran furia brontolando sempre.
Proseguì a capo basso; solo, quando ritenne di esser giunto sotto il davanzale della sua creatura, levò gli occhi. Mignon era là!
Aveva veduto tutto; ma forse non aveva udito tutto. Era là e fu sollecita a ritirarsi non appena lo vide. Per Bios!
Si ritirò e chiuse la finestra con vivace fragore.
— L'ha fatto per me!
Ciò gli dette tale fitta al core che traballò.
— Per Bios!... Ma che cosa le ho fatto?...
Veniva innanzi un temporale catastrofico e il cielo si oscurava.
Camminando così, nel grande travaglio dell'anima, prese uno scivolone che per poco non lo mandò ruzzoloni.
— State attento! — gli disse un passante che era accorso. E Mostardo, pien di dispetto:
— S'a chesch, a chesch in tèra; zidenti a ch'im tö sò!... (Se casco, casco in terra; accidenti a chi mi prende su!...).
E continuò la strada.
Ah, Mignon!... Perchè dischiudere un napoleonico giaciglio a un gigante tranquillo, per poi negargli anche la grazia di un sorriso?... Era questo che non riusciva a capire il povero grande Mostardo!
Forse non era stata che una distrazione.
— Una distrazione?... Ma se è stato tutto un dare e un prendere?... Tu per me ed io per te! Dunque?...
E non la digeriva.
— No!... Anche lei mi vuole avvelenare!... A sò un povar sgraziè!... (Sono un povero disgraziato!).
E l'amore, l'amore lo riduceva ai minimi termini, povero grande Mostardo! Perchè, nella sua schietta ed intiera semplicità, non riusciva a capire la donna che oggi si dona e domani ha tutto dimenticato. Come si possono dimenticare certe cose? Ma sono forse una bibita rinfrescante? Già con le donne non si ragiona. Non si ragiona!
E l'affanno gli cresceva a dismisura.
Incominciò un vento gelido di tempesta e suonavano lontano, per le campagne, le campane a scongiurare la grandine.
Era la prima volta, la primissima volta, in vita sua che Mostardo provava il mal d'amore. E questo male lo rendeva cieco.
Errò così in lungo e in largo senza saper dove andasse.
Poi cominciò un tremendo temporale estivo fra grandine, baleni e saette.
Il cielo era livido, nero. Un vento a raffiche si avventava giù dal cielo a rovesciare i camini, a far volare le tegole come le foglie di autunno.
La gente fuggiva spaurita. Mostardo non se ne accorse neppure.
Disse solo, rispondendo all'interno dispetto:
— Me avrèbb che piuvèss dal mesan!... (Io vorrei che piovesser macine!...).
E chi lo vide passare lentamente sotto il diluvio ritenne fosse impazzito.
Il cielo pensò a calmarlo un poco. Dopo venti minuti di irrigazione, riaprì l'anima alla speranza.
Poteva darsi fosse stata una giornata di nervi per Mignon. Già le donne moderne eran tutte nervose. L'aveva sentito dire.
Sperò nel giorno dopo.
Poi si trovava sulla soglia del giardino di Spadarella e ritornava il sole.
La sua speranza si illuminò raggiando.
Ecco, fra il sole e il baglior delle foglie, attraverso all'umida dolcezza del giardino che rinasceva più fresco dopo il temporale, ecco l'incantesimo di una voce distesa. Si fermò ad ascoltare.
— Dove sei stata questa mattinella?...
— Bondì, Mariù!
— Dove sei stata questa mattinella?...
Era una vecchia cantata; una fra quelle cantate che aveva udito e imparato quando errava, ancora bambino, scalzo e scamiciato per le strade della sua città.
Poi gli erano uscite di mente con gli anni, gli avvenimenti, le sofferenze; col logorio della vita. Avevano esulato tacite e raccolte come le cose che si portano via a mano a mano un poco del nostro core; un poco della nostra vita.
Si erano rifugiate nel paese delle nebbie lontanissime dove si raccoglie l'ultimo fior dell'anima per morire; e per sempre!
Ora gli ritornavano innanzi le parole e la musica, e gli riconducevano un dimenticato sorriso di giovinezza.
Nel tempo della sua giovinezza andavano in giro quelle canzoni un poco monotone e soavi. Le cantavano le donne, sfaccendando: da una stanza buia, da una terrazza sopra le vecchie case color della ruggine. E portavano il ritmo di un sogno e un poco di sole a tutte le sperdute nel giro dei grigi e soli.
Le portavano i cantanti girovaghi, nei giorni di mercato, per le piazze; poi prendevano il volo per tutta una terra; diventavano patrimonio comune; eran di tutti come le cose che si apprezzano solamente quando sono lontane.
Mostardo sorrideva, disteso in una beatitudine di paradiso. E l'usignuola del suo giardino continuava a cantare.
Poco alla volta, piano piano, passando da aiuola ad aiuola, Girolamo e Stefano si erano avvicinati; ed ora, le nere ed ossute mani puntate sulla vanga, la faccia inchina, immobili, stavano ad ascoltare, dimentichi di ogni altra opera, i poveri vecchi, presso il più bel fiore del loro giardino. Perchè era tanta la soavità di quel canto che le cose stesse vi si immergevano, trasfigurate.
Son stata a coglier l'insalatinella,
mio bel marì!...
Son stata a coglier l'insalatinella!
Poi, di un subito, in un'ultima nota, filata via ad estrema dolcezza fino a morire, fusa nella stessa armonia del silenzio, il canto si spense. Si spense, ma continuò nell'aria un poco; e un po' più nel cuore di chi l'ascoltava.
Caduto l'incantesimo, il cavalier Mostardo non seppe infrenare l'impeto dell'entusiasmo e si dette ad applaudire e gridò con tutta l'anima, levando la faccia verso la piccola finestra racchiusa in un fregio di fior gelsomino; gridò:
— Bravo il mio core!...
Spadarella apparve alla finestra.
— Bravo il mio core!... Bravo il mio core!...
Aveva, agli angoli degli occhi, due grossi lucciconi.
— Per Bios!... Ta m'é fatt piànzar!... (Mi hai fatto piangere!...).
Il fresco riso!... Ed anche l'ultimo sole rise con lei fra i suoi capelli d'oro pallido pallido. Girolamo e Stefano la guardavano senza parlare.
— Che cos'hai fatto, zio?
— Sei un angelo!...
— Ma che cos'hai fatto?... Sei bagnato?...
Ora si spenzolava dalla finestra, a guardarlo.
— Sei bagnato?
— Ma no!
— Come no?... Che cos'è allora?
— Avevo un diavolo per capello. Forse sarà stato il temporale!
— Povero zio!... Aspetta che vengo... aspetta!...
E si udì la sua corsa per la stanza, poi giù per le scale.
Quando uscì nel giardino, Mostardo non si era mosso tuttavia. Stava là, in mezzo alla pozzanghera che aveva formato con tutta l'acqua che gli colava da dosso.
Spadarella si fermò a guardarlo.
— Ma vuoi prenderti un malanno?
— Che cosa vuoi che prenda!... Sono di pelle dura!
— Vieni in casa ad asciugarti.
— Ma non importa!
— Spina Rosa?... Spina Rosa?...
La vecchietta si fece su l'uscio e, come ebbe veduto Mostardo, congiunse le mani e, atteggiata la faccia alla maggiore compunzione, esclamò:
— Jòso, la mi Madona!... (Gesù, Madonna mia!...).
Fu acceso un gran fuoco, in cucina; lo zio Giovanni vi sedette accanto, ad asciugare.
La finestra era aperta. C'era un profumo di rose e di erbe aromatiche e il paradiso era in quel luogo, con la beatitudine senza fine.
Mentre lo zio Giovanni, gli occhi perduti nella fiamma, si smarriva nella sua quieta felicità dimenticando ogni più recente pena, Spina Rosa, dietro le spalle di lui, faceva di gran cenni a Spadarella. E Spadarella sorrideva.
Dovevano fare una improvvisata a Mostardo, ma Spadarella non si decideva. Finalmente disse:
— Abbi pazienza, zio; debbo sbrigare una piccola cosa e torno subito.
— Dove vai?
— Devo finire una cosa.
— La finirai dopo. Rimani con me. Non stiamo mai insieme!...
— Ma... era...
E Spina Rosa:
— Lasciatela andare, padrone.
— Be', fa presto!
Spadarella scivolò nella stanza attigua e lasciò la porta aperta. Spina Rosa, ferma presso la tavola, si riaggiustò il grembiale da cucina e levò la faccia in una attesa trepidante. Si udì un suono secco come se il coperchio di un mobile fosse stato aperto a furia.
Cantavan le capinere fra le gaggìe sporte fuor dalle serre aperte, a fiorire. Suonaron le campane del Duomo, suonaron soave rammentando al cuor degli uomini che la sera si avvicinava.
Spina Rosa si fece il segno della croce.
Si udì il trabalzare di un plaustro sui ciottoli della strada. Il tralcio di una rosa rampicante, pendeva nel vano della finestra, assecondando il vento in un dondolìo dolce come se ninnasse i suoi bocci vermigli nel cuor del turchino.
Scendeva piano piano, dall'eternità, l'ora delle rugiade.
Spina Rosa si impazientiva guardando verso la stanza nella quale era scomparsa Spadarella.
Lo zio Giovanni era rientrato nel regno della sua smarrita beatitudine.
— Spadi?
— Un momento!... — rispose la piccola bella. Spina Rosa non poteva trovar pace.
Ad un tratto anche le capinere finiron di cantare e lo zio Giovanni scattò sulla seggiola e si rivolse a guardare verso la stanza nella quale era scomparsa Spadarella.
Nel placido e amoroso tramontar della luce, come le rose fra le foglie, come i fior del ciliegio fra le rame, e le stelle sperdute fra le costellazioni, sbocciavano, a far parte dell'umano Universo, sgorgavano per estenuarsi nel vento e salir verso il cielo, le note di una musica che non aveva ancora un nome, che non aveva ancora un volto, ma nasceva e svaniva, per gli ascoltatori improvvisi, nel subcosciente.
Sì, era Spadarella!...
Era Spadarella, la bionda creatura mattutina, seduta ad un vecchio clavicembalo, chè altro non aveva potuto comprare coi suoi scarsi risparmi. E per lunghi mesi aveva serbato il segreto per giungere all'improvvisata di quell'ora.
Spina Rosa era al colmo della felicità.
Lo zio Giovanni chinò gli occhi e la faccia e non disse niente.
Girolamo e Stefano, in punta di piedi, trattenendo il fiato, entrarono l'un dietro l'altro e si fermarono presso la porta, il capo scoperto.
Non era un po' figlia loro, Spadarella?... Essi lavoravano al nido di lei; facevano nascere i fiori del suo giardino; la tenevano alta nella devozione della loro fatica.
Era la loro piccola madonna; l'angelo che fa perdonare la vita ai poveri poverelli.
E quattro anime eran rapite così nello stesso amore. Fu prima una dolce sonata di Frescobaldi che Spadarella eseguì sul clavicembalo dalla voce dispenta; poi cantò. Cantò un brano della Traviata; un altro dei Pescatori di perle e la romanza della Vally:
... ebben ne andrò lontana...
Ma dove la toglieva, la piccola gola di usignoletta, tanta passione?... Da dove le derivava una così grande intensità di ardore?... Come poteva conoscere tanta tristezza, da far piangere le quattro creature in adorazione?...
... ebben ne andrò lontana
come fa l'eco della mia campana...
Così tutta la nostalgia della povera umanità tribolata partiva con l'anima di Spadarella sul vento della sera. Ella cantava per tutti i cuori che si levano sul vento della sera, quando la malinconia li raccoglie oltre la fatica e il deserto. E la sua voce era la cosa più pura ed angelica che potesse levarsi sul mondo delle anime appenate.
Un altro uditore entrò che si tolse il cappello e rimase fermo sulla soglia: Asdrubale Tempestoni. Nessuno gli pose mente.
Poi scoppiò un urlo e chi gridò più forte fu lui, Tempestoni:
— Questa vale dieci volte la Melba, la Patti, la Tetrazzini, te lo dico me!...
E giù ad applaudire da schiantarsi le mani. Si udiva Spadarella che rideva nella stanza vicina.
Poi incominciò un'aria del Werther.
Il Werther, in Romagna, è una istituzione sociale. Hanno pianto più occhi per i casi di Carlotta, nella terra dei cocomerai, che non siano passate rondini sul Mar Africano. La musica del Werther fra Imola e Cattolica, fra Ravenna e Rocca San Casciano, e dalle Lagune di Comacchio ai confini della Repubblica di San Marino, è più popolare dell'Internazionale. Tutti i teatri, grandi e piccini, hanno avuto il loro Werther.
... Signor, la casa è qui...
l'ora è di riposar...
Oppure:
— Tu mi hai detto:
A Natal...
E ancora:
Come, passato il nembo,
si queta il mar fremente,
il cuor non soffre più...
Chi non canta questa musica? Chi non sa questa musica, per le rosse città della dolce terra armoniosa?...
Tutta la malinconia della razza si è raccolta per le melodie massenettiane e di queste ha fatto la sua passione. Così quando Spadarella, con la sua voce soavissima, incominciò a cantare un'aria dell'opera prediletta, tutti si rizzaron sul torso e l'estasi si dipinse su quei volti rudi e passionati. Poi fu un finimondo di applausi e, quando la piccola comparve sulla porta, lo zio Giovanni se la prese fra le braccia e le disse le cose più belle che sapeva; tutte le cose più belle che sapeva, anche se non eran troppe.
— Dunque — fece Tempestoni — lo facciamo questo contratto?... Ma sì! Deve debuttare nella sua città. Dobbiamo essere noi a tenerla a battesimo. Dove vorreste mandarla?... Questo settembre... al tempo della mia Grande Lotteria, Mostardo!... Vi preparo un teatro da leoni! Vi faccio anche il Golfo Mistico!...
— Voi fate delle chiacchiere!
— No, vi faccio il Golfo Mistico a mie spese, nel Teatro Comunale! Deve correr la gente da Milano e da Roma. Deve essere una cosa che non si è vista mai in Italia. Un paradosso!
Asdrubale Tempestoni non aveva un linguaggio preciso e usava le parole con sfumature tutte sue.
— Lo facciamo questo contratto?... Daremo il Werther, è vero Spadarella?
La piccola sorrideva senza parlare.
— Lasciatemi pensare, prima!
— No, è meglio subito!
— Ma lo sai bene il Werther? — domandò Mostardo a Spadarella.
— Ho cinque opere in repertorio!
— Cinque opere?
— Ma se vi dico che ha fatto miracoli — disse Spina Rosa.
E Tempestoni:
— Dieci sere... diecimila lire!... Die-ci-mi-la belle lirone!... Eh, Spadarella?...
— Jòso, e' mi Signor!.. (Gesù, Signor mio!) — mormorò Spina Rosa.
— È che voi non capite niente di teatro, caro Mostardo, perchè se capiste accettereste le mie proposte a braccia aperte!... Solamente il Golfo Mistico!
— Che cos'è questa roba?... — domandò Mostardo.
— Come che cos'è... È una invenzione tedesca o di Wagner o di Biroit, non mi ricordo bene...
— No, signor Asdrubale — fece Spadi, sorridendo. — Beireuth è una città della Baviera nella quale Riccardo Wagner fece elevare il suo famoso Teatro Nazionale.
— Hai sentito?... — fece Tempestoni rivolto a Mostardo. — Spadarella ti può insegnare. Be', io ti faccio, a mie spese, il Golfo Mistico.
— Ma, insomma, che cos'è questo Golfo?
— È una specie di buco per l'orchestra. Wagner la sapeva lunga, Wagner!... Perchè vedere nel muso tutti questi smorfiosi di professori?... Era troppa confidenza per il pubblico! Allora ecco un bel buco e, dentro tutti quanti! Tromboni e contrabassi e la Cassa coi piatti!... Così non si sente che la musica. Poi il teatro al buio!.... È anche una bella economia. Oi!...
— Il teatro al buio?
— Sicuro! La nostra città non avrà mai veduto niente di simile. In quanto a questo, se ne parlerà anche all'estero. Poi, con la mia Grande Lotteria, in quei giorni sarà qui tutta la Romagna. Dunque volete firmarlo questo contratto?
— Oggi no — fece Mostardo.
E Spadarella:
— Il maestro mi aveva già proposta una scrittura per Milano.
— Per Milano?
— Sì. Al Dal Verme!
— Be', il Dal Verme sarà il Dal Verme — fece Asdrubale Tempestoni contrariato. — Però il nostro Comunale col Golfo Mistico...
— Per adesso non voglio sentir niente! — gridò Mostardo. — Voglio pensarci. Non so neppure se manderò la mia bambina sul teatro. Non volete capire che è la mia bambina?... Domani, se qualcuno si pensasse di torcerle un capello, porco Dacco!... Brucio il teatro e il tuo Golfo Mistico, e tutte le scarabattole per suonare!...
— In quanto a questo, non son poi tanto scarabattole! — mormorò Asdrubale, mortificato.
— Bella roba!... Per quello che valgono!...
— Sì! Mo vacci te a suonare! — fece Tempestoni, offeso nel suo amor proprio di impresario.
Poi lo zio Giovanni cedette alla dolce Spadarella. Furono combinate dieci recite del Werther per la seconda quindicina di settembre; una grandissima réclame, il teatro messo a nuovo, il Golfo Mistico e diecimila lire alla piccola.
Stesa la bozza del contratto, Tempestoni volle lasciare una caparra perchè Mostardo non avesse a pentirsi.
Spadarella sarebbe stata una Carlotta paradisiaca.
— Una Carlotta di paradiso, sì!... — Il Cavalier Mostardo scosse il capo guardando i mattoni del pavimento. E un'altra Carlotta era esulata nel campo de' suoi vili nemici!
Asdrubale Tempestoni raggiunse il colmo dell'entusiasmo.
— Ma che Scala e Costanzi!... Dovranno venire da noi, se vorranno sentire il primo Werther del mondo!... La Scala!... Il Costanzi!... Aspetta che ti accomodi io il nostro teatro e poi vedrai!... Non ci deve essere parangone neppure con l'Opera di Parigi!... Io le so fare le cose, io!... Ti faccio un Golfo che ci può venire il Signore a suonare! Te lo dico me! Ti accomodo un teatro che se ci porti la regina Elisabetta o Caterina Sforza, ci devono stare come a casa sua! Ma che cosa vuoi parlare!... Noi siamo sempre estemporanei!... Basta che si dica la Francia, la Germania, l'Inghilterra!... Basta che si dica l'America e il Giappone!... E quello che facciamo in casa propria è sempre una porcheria!... Bella gente siamo! Ma chi te le ha fatte le grandi invenzioni?... E Marconi dove lo metti? E dove metti Michelangelo, Cagliostro, Giuseppe Verdi?... Dove son nati Rossini e Tamagno?... Dov'è morto Dante Alighieri?... Da noi!... Proprio da noi... qui, a due passi: a Ravenna, che era come casa sua!... Altro che storie!... E poi, se si volesse incominciare dai Romani non si finirebbe più.
Perchè fa vergogna!... Se in casa nostra c'è un uomo d'ingegno, lo facciamo morir di fame!... Ma guarda Catalani, per non dir di più! Se fosse nato in Germania avrebbe scritto dieci Vally, avrebbe scritto!... Noi lo abbiam fatto morire che non aveva tre soldi da comprarsi un caffè... E chi più sparla, più ha ragione, da noi! Ai miei tempi i giovani imparavano ed erano pieni di entusiasmo; adesso imparano a dir male degli altri quando hanno ancora i due soldi sull'ombelico!...
Imparate a conoscere l'Italia, imparate!... E lasciatemi stare tutte le Francie e le Inghilterre del mondo!... Sì, va in Francia e in Inghilterra a sentire quello che dicono di noi, quei Padreterni!... L'Italia?... Peuh!... Da buttar via!... E devono venir da noi per imparare! Be', vedrete adesso, che cosa vi combinerò io, che mi chiamo Tempestoni! Tutti a bocca aperta resterete. Ve lo dico me!
— Addio Spadarella! —
E uscì che aveva il colore dei papaveri e un'anima garibaldina, nel rosso crepuscolo estivo.
Rimasero soli lo zio Giovanni e Spadarella. Sedettero all'aperto, nel giardino.
Spadarella stava sulle ginocchia di lui che la guardava senza far parola. Pareva volesse dirgli qualche intima cosa e non ardisse.
— Zio?...
— Cosa vuole la mia bambina?
— Zio... dovrei dirti una cosa...
— Dilla.
— Non so come incominciare!
— È una cosa grande?
— Credo di sì.
— Una cosa molto grande?
— Per me, sì!
— Diavolo, diavolo, diavolo!... E che cos'è mai?
— Zio...
— Avanti. Ti vergogni di me? Non ti voglio bene? Hai timore che ti dica no?
— Non è questo, zio, ma... vorrei tu indovinassi!
— Mi debbo provare?
— Sì, sì!
— Vediamo. Di che si tratta?
— Se debbo dirtelo io, allora...
— No! Volevo sapere... Un momento! Si tratta di affari?
— Oh, no!
— Di cose che ti possono piacere... che so?... di qualche desiderio?
— Neppure!
— Neppure?... Allora... vediamo!... Ora credo di esserci. È una mia vecchia promessa?...
— Non so...
— Sì, bambina mia! È una mia vecchia promessa. Ma sono pronto a mantenerla. Del resto perchè non dirmelo? Non sai che ho solo la mia Spadarella al mondo, io, vecchio matto?... Non sai che se Spadarella mi dicesse: — Voglio il tuo cuore!... — Mi aprirei il petto, per darglielo questo cuore che non è più buono a niente?
— Il mio zio!... — e lo baciò.
— Dunque... allora resta fissato. Andremo a Rimini fra dieci giorni. Ti fa piacere?... Era questo che voleva la mia bambina?...
— No, zio. Non era questo!
— No?... E allora il povero zio Giovanni è una bella bestia! Già, ci vorrebbe il cuore di una mamma per capirle queste bambine!... Io?... Che cosa vuoi che capisca io, che sono uno scapolaccio ignorante...
— Non parlare così! Sai che non voglio!
— Devo provare ancora?
— Sì.
— Vediamo... Ahi, che ho capito Spadi!
— Davvero?
— Questa volta, sì! Ne sono sicuro.
— Allora?... Che cos'è che voglio?...
— Bambina... il grande segreto è qui — e le posò una mano sul cuore.
Spadarella chinò la faccia senza rispondere.
— Vedi?... Ed è una faccenda grave?
— Sì.
— Sei innamorata!
Spadarella non rispose. Gli levò i grandi occhi celesti in volto, e brillarono d'amore e di gioia.
— Sei innamorata... — ripetè lo zio Giovanni. — Già... era da prevederlo! Così bella come sei!...
— Ma non voglio andarmene, zio!
— In quanto a questo, il mio cuore non deve pensare ai vecchi!... I vecchi bisogna lasciarli nel loro cantone, come è giusto. Quando non servono più a niente, il Signore se li deve portar via... Lasciami dire. Io lo so bene come vanno le cose. E poi... credi che lo zio Giovanni vorrebbe proprio guastare la vita della sua bambina? Ma se ne andrebbe, col suo fagotto, centomila volte! Be'... lo so che ti dispiace... lo so che sei buona!... Di questo non parliamo. E... vorresti sposare?...
— Io non so, zio!... Vorrei che tu mi consigliassi.
— È piuttosto difficile, sai?... Ah, è piuttosto difficile!... Vedi bene che non sono mai riuscito a consigliar me stesso, se sono ancora scapolo!
Spadarella rise e gli gettò le braccia al collo.
— Zio... zietto... sì, tu devi consigliarmi! Tu devi consigliarmi!...
— Io ti dirò quello che è giusto e niente di più: fa quello che ti dice il core.
— Mi pare troppo presto, adesso...
— Non hai torto.
— ... e gli voglio bene!
— Beato lui!
— Vorrei aspettare.
— Sì, bambina. Sei tanto giovane!
— Potremmo fidanzarci.
— Fidanzatevi! Però... un momento. Si può sapere il nome di lui?
— Lo conosci.
— Io?... No!
— Sì, zio. Te l'ho detto un'altra volta.
Lo zio Giovanni guardò Spadarella negli occhi, poi abbassò la faccia.
— Ah!... È quello del rosignolo...
Ripetè più sommessamente e più pensoso:
— ... è quello del rosignolo!... Sicuro, sicuro, sicuro... È quello del rosignolo... Non ci avevo pensato. Già... tu me ne parlasti... e poi mi era passato di mente. Sfido, io!... Con l'inferno che è nella mia vita in questi giorni!... Si chiama, già... si chiama, si chiama... ah, Paolo Corani!... Sicuro, sicuro!... E, quando è ritornato?
— Ritornò subito, zio.
— Subito?... Già!... E... è venuto spesso a trovarti?
— Ci vedevamo tutte le sere sulla porta del giardino...
— Tutte le sere!... Paolo Corani... Già, il figlio della Serafina. Suo padre è in America. Scappò con una donnaccia e piantò qua la moglie e il figlio... Sicuro, sicuro...
E tacque.
— A che cosa pensi, zio?...
— Bambina, dimmi proprio la verità; ma dimmela con gli occhi negli occhi e ricorda che non ho in mente se non il tuo bene. Qualsiasi cosa tu abbia fatto, non ti condannerò. Tu sarai sempre sempre il mio core!... Ricordalo... E adesso rispondimi così, come parleresti a e' tu Signurèn in' t' e' zil! (al tuo piccolo Signore nel cielo!). Bambina... ti sei compromessa?
— No, zio.
— Va bene. Ti credo. Tu non sai dirla una bugia. Poi, con me?... Che gusto ci sarebbe se ti perdonerei sempre?
— Come sei buono!...
— No... no!... Io non sono buono. Sono un vecchio catafalco io, lo so... Però vorrei conoscere questo tuo Paolo...
— Sì, zio. Subito.
— Ecco... Subito sarebbe un po' troppo! Mettiamola per domani, ti va?
— Come vuoi, zio.
— Io, intanto, cercherò di sapere tante cose. Però... se a te non fa piacere...
Spadarella gli dette un gran bacio perchè tacesse.
— Vedrò come stanno le cose. Non ti sembra necessario?
— Sì, zio.
— È necessario. Tu sei sola. Quel ragazzo potrà essere una perla, ma potrebbe anche darsi che non lo fosse, e allora...
— Allora?...
— Allora gli rompo la faccia come è vera la Repubblica!
— Zio!...
— Eh, no, bambina!... Eh, no!... Con certe cose non si può scherzare!... Perchè se quel ragazzo ha calcolato di farsi bello con la mia creatura, gli è passato di mente il mio nome e chi è Giovanni Casadei!...
Ora camminavano per il giardino.
Spadarella si era fatta pensosa.
— Zio?... Non lo tratterai male?
— Ma no, bambina!... Gli domanderò solo che intenzioni ha.
Poi il Cavalier Mostardo si fermò chè vide venire innanzi fra le aiuole, Rigaglia.
E si guardava i piedi, forse per la gioia de' suoi riconquistati scarponi.
Quando furono a due passi l'uno dall'altro, Mostardo aggrottò le ciglia e domandò:
— Ch' sèll nèca? (Che c'è ancora?).
Rigaglia levò la faccia e rise.
— Che cos'hai da ridere?
— Ditemi grazie! — fece Rigaglia con fare misterioso.
— Cosa vuol dire grazie?... At ziral la baracòcla? (Diventi matto?).
— Dovete dirmi grazie! — ripetè Rigaglia ridendo sempre.
— Non importa che tu faccia lo stupido! Di' quello che hai da dire e fa presto.
— E io non vi dico niente!
— E io ti dò un pugno che ti farà passare la voglia di ridere!
— Bella maniera!...
— Quella che ci vuole con te, brutto testone! Ti credi forse di potermi prendere in giro?
— Già siete sempre voi, chè non vi si può mai parlare!
— Ma vuoi prendermi per il tuo giocattolo?...
Allora Rigaglia, indispettito, brontolò:
— Volevo dirvi che ho ritrovato la Carlotta... ma non ve lo dico più!
— Che cosa?... — gridò Mostardo accostandosi di un passo al suo fido nemico. — Hai ritrovato la Carlotta?
Rigaglia non rispose.
— Hai ritrovato la Carlotta?
— Pare! — nicchiò Rigaglia.
— E dov'è?
— Nella stalla.
— Nella nostra stalla?
— E dove dunque?...
Allora Mostardo si illuminò come il più alto monte quando nasce il sole. Si rivolse a Spadarella:
— Hai sentito?... Ha ritrovato la Carlotta!...
E gli ridevan gli occhi e tutta la faccia.
— Ha ritrovato la Carlotta!... Vieni qua!
Rigaglia non si muoveva. Col suo testone basso si ostinava a guardarsi gli scarponi.
— Ti ho detto di venir qua! Non badi?...
Rigaglia si fece innanzi un poco, come un infante impermalito.
— Adesso ti dico grazie — fece Mostardo e gli posò le larghe mani sulle spalle. — Sì, ti dico grazie perchè sei grande!
Rigaglia nicchiava sempre.
— Che cos'hai da brontolare?
— No!... Con voi non c'è gusto!...
— Vuoi che ti chieda scusa?
— Io non voglio niente!
— Vut c'at dèga un bès? (Vuoi che ti dia un bacio?).
Risero tutti tre: Spadarella, Rigaglia e Mostardo.
Poi l'umile e il grande se ne andarono insieme, braccio sotto braccio, come due innamorati.